“Mi tatuo la faccia di Chopin sul polpaccio”: intervista a Lazza

Lazza, il rapper pianista si racconta in una lunga intervista, parlando di musica, progetti futuri e del nuovo album Zzala

22 Giugno 2017

Un po’ rapper, un po’ pianista: Lazza ha conquistato tutti con il suo primo disco intitolato “Zzala”. Classe 1994, l’artista milanese si è fatto notare anni fa per la sua tecnica impeccabile e la sua abilità nel freestyle. Dopo una serie di video fortunati su Youtube e collaborazioni importanti – fra cui quella con Emis Killa – è arrivato al successo grazie al singolo “DDA”. L’album d’esordio del rapper di Milano è prodotto da 333Mob e presenta al suo interno due collaborazioni importanti con Nitro e Salmo. Nelle undici tracce le note del pianoforte si mescolano a sonorità più moderne, mentre Lazza si racconta senza filtri, fra speranze, vita privata, sogni ed esperienze.

In pezzi come “Lario” e “Overture”, colpisce molto il contrasto repentino fra la strumentale hip hop e il suono del piano. Che rapporto hai con la musica classica?

È un forma di cultura, per me. Si tratta della musica che ho studiato ed è sempre stata una carta vincente che non ho mai avuto il coraggio o la forza di tirare fuori: mi sembrava al tempo un po’ prematura. Poi un giorno, parlando con Kidd (Low Kidd è il producer e direttore artistico, insieme a Slait, di 333 MOB, l’etichetta di Lazza, ndr) mi ha detto: “ma tu sei proprio bravo a suonare, tira fuori questa roba”. Il difficile è stato trovare dei brani che funzionassero da strumentali, su cui poterci rappare.

Sei proprio tu a suonare?

Sì, certo. Quello di “Overture” è un Notturno in Do minore di Chopin, che è uno dei miei pezzi preferiti ed è anche nella colonna sonora de “Il Pianista” di Polanski. Io poi vado matto per Chopin, settimana prossima vado a tatuarmelo, ci sono proprio affezionato. Quello in “Lario” – invece – è il Secondo Preludio per clavicembalo ben temperato in Do minore di Bach, che però abbiamo rieditato un pochino e alzato di un tono, ossia in Re minore.

Ascoltando l’album, colpisce molto anche l’uso della lingua italiana, in particolare di alcuni neologismi. Il percepito esterno di chi non segue il genere è che nell’hip hop la linguistica venga tralasciata, a favore di altro, per esempio la metrica.

Sì, è vero, nell’hip hop c’è sempre meno importanza per il testo. Bisogna fare differenza tra il facile e il banale: una cosa facile è una cosa che possono capire tutti, una cosa banale è cheap, poteva essere scritta meglio. Io dedico molto al testo, anche se vedo che questa cosa si è un po’ persa, specialmente tra i miei coetanei. Non voglio sminuire nessuno, anzi: c’è gente che fa delle hit che tirano più delle mie, però danno più importanza al pezzo finito e a come suona, piuttosto che a cosa si va a dire. Io cerco di fare in modo che ci sia tutto.

C’è molta confusione a riguardo: ci dai una definizione di Trap?

Beh, il Trap…la Trap…

Ma Trap è maschio o femmina?

La Trap, la Trap. È femmina. In America dicono Trap Life, penso sia femmina. In Italia si pensa sia soltanto un sottogenere del Rap, in realtà Trap non definisce una musica, gente come i Migos o Gucci Mane ne sono l’esempio. Per loro è uno stile di vita: il “vivere Trap” è fare i soldi con la droga, prima che fare musica.

In Lario rappi “Io c’ho ancora ‘sta fame, fra la stessa dei miei, mentre tu stai ad instagrammare il nulla che sei”. Com’è il tuo rapporto coi social?

Preferisco uscire di casa, ma visto il lavoro che faccio devo usarli per forza.

La vivi come una costrizione?

Penso che non bisogna stare sui social tutti i giorni, tutto il giorno, perché altrimenti ne diventi dipendente. Però ripeto: non posso farne a meno. Una volta era diverso, anche se è un periodo che io non ho vissuto: si facevano i dischi, si promuovevano e si vendevano. Non c’era YouTube, non c’erano i social network, ma era senza dubbio più difficile emergere rispetto ad oggi. Anche se dall’altro lato, con tutti questi mezzi la vendita di dischi si è un po’ persa.

Mi hai servito la prossima domanda: cosa pensi del “modello Spotify”? È vero che oggi si guadagna più dai live?

Certo, assolutamente. Il mio guadagno arriva decisamente da quello: dai live, dal merchandising e sicuramente meno dalle vendite dei dischi.

In questo momento storico percepisci da parte di media mainstream un po’ più di attenzione per il genere o è ancora qualcosa “da cui tenersi a distanza”?

No, no, c’è un sacco di attenzione, anzi. Io ultimamente a Milano vedo proprio un bel riscontro: se vado in centro – non per essere presuntuoso – faccio davvero fatica a muovermi. Che è bello, per carità, però dipende dalle situazioni.

Con quale artista italiano (non rap) ti piacerebbe collaborare?

Jovanotti o Max Pezzali, perché sono due miti per me, la mia infanzia. Ma comunque ascolto di tutto: per me Vasco è un mito, mi piace molto anche Tiziano Ferro, trovo sia una delle voci più belle che abbiamo in Italia. Oltretutto lui viene da lì, ci sono video di anni fa in cui lavorava coi Sottotono o con Tormento, se vai ad ascoltare i pezzi vecchi ci sono influenze che ricordano vagamente la musica rap. Anche Mario Biondi mi piace molto, mi ricorda parecchio Barry White.

Stai scrivendo cose nuove in questo periodo?

Scrivo sempre, non mi fermo mai.

È bella questa idea di “work in progress” perenne, accomuna molti artisti. Soprattutto quelli che, per quanto abbiano successo, sono all’inizio della carriera…

Prima hai citato quella frase di “Lario” (Io c’ho ancora ‘sta fame, fra la stessa dei miei, ndr.): ecco, io penso che un’artista che perde la fame è un’artista finito. Un domani, se diventerò più grosso e farò un sacco di soldi, avrò ancora più fame. Sono fatto così: difficilmente mi faccio fermare dalle cose. Se c’è un ostacolo cerco di tirarlo giù.

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