Abbiamo intervistato Andrè Aciman

André Aciman, autore di “Chiamami col tuo nome” da cui è tratto l’attesissimo film di Luca Guadagnino, si racconta in una lunga intervista esclusiva

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Chissà se dieci anni fa, quando pubblicò “Chiamami col tuo nome” (titolo originale “Call Me by Your Name”), André Aciman immaginava che un giorno Luca Guadagnino avrebbe reso il suo dolcissimo e – allo stesso tempo – straziante romanzo (oltre che un fenomeno di costume mondiale) un film candidato a ben 3 Golden Globe, che ora punta dritto all’Oscar.

Classe 1951, lo scrittore nasce ad Alessandria d’Egitto da una famiglia sefardita di origini turche. Fuggì a Roma quando era ancora un ragazzino a causa delle persecuzioni di Nasser e in seguito si trasferì a New York. Oggi insegna letteratura alla City University di New York ed è uno dei maggiori esperti di Proust. Nonostante viva negli Stati Uniti, André Aciman ha mantenuto un forte legame con l’Italia che iniziò ad amare, come ha raccontato lui stesso, guardando “Il Gattopardo”. “Chiamami col tuo nome” è ambientato proprio nel nostro Paese. I protagonisti della storia sono Elio, 17enne figlio di un professore universitario, e Oliver, uno studente americano arrivato nella riviera ligure per realizzare la sua tesi post dottorato. Nella calda estate del 1988 vivranno un’esperienza che segnerà per sempre la loro vita. Fra i due infatti nascerà un desiderio tanto inatteso quanto inesorabile che decideranno di vivere sino in fondo.

Elio e Oliver sperimenteranno l’estasi e al tempo stesso la sofferenza. Il romanzo è infatti una riflessione proustiana sul tempo e sull’amore, su un paradiso scoperto e poi perduto, ma soprattutto racconta la necessità di fondere la propria identità con quella dell’altro, “indossandolo” come fosse una seconda pelle.

 

L’omonimo film di Luca Guadagnino, che trae ispirazione dal romanzo di Aciman, è stato presentato per la prima volta il 22 gennaio al Sundance Film Festival 2017, mentre uscirà in Italia il prossimo 25 gennaio. Gli interpreti principali sono Timothée Chalamet e Armie Hammer. La pellicola sino ad oggi ha ottenuto tre candidature ai Golden Globe, una nomination ai SAG Awards, sei agli Independent Spirit Awards. Ha vinto due premi Gotham, un Hollywood Film Award, ben tre premi della Los Angeles Film Critics Association, due riconoscimenti dell’Usa National Board of Review, il premio del pubblico come miglior film al festival di Saint Louis, il premio del New York Film Critics Circle e il Rising Star Award a Palm Springs.

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Abbiamo incontrato Andrè Aciman in una fredda e nuvolosa mattinata newyorkese, una di quelle che conciliano le discussioni sulla letteratura e sull’amore. Che – come abbiamo imparato da questa chiacchierata – in molti casi sono esattamente la stessa cosa.

Vorrei iniziare con una domanda abbastanza banale ma imprescindibile: ti è piaciuto il film di Luca?

Molto, davvero molto. Non amo il cinema di oggi, ma il suo film mi è piaciuto tantissimo. Anzi, quando ho saputo che sarebbe stato lui il regista del film ero molto contento: avevo visto “Io sono l’amore”, girato con uno stile viscontiniano e molto stilizzato. Mi aspettavo delle belle cose anche questa volta e così è stato.

Quando hai scritto il libro, avresti mai pensato sarebbe diventato un film (e un fenomeno) di questa portata?

Mai, ti immagini? L’ho scritto nel 2005 ed è stato pubblicato negli Stati Uniti nel 2007, anche se al suo posto avrei dovuto scrivere un altro romanzo che già avevo iniziato ma che mi stava dando molti problemi. Man mano che mi scontravo contro questi problemi, ho capito che forse era il caso di smettere per un periodo e iniziare a lavorare su qualcosa di nuovo, così ho cominciato a scrivere “Chiamami col tuo nome”, con la consapevolezza che non sarebbe andato da nessuna parte. Quando l’ho consegnato all’agente, le ho detto: “Questo romanzo non mi si addice, non credo sia opportuno”, poiché sapevo che nessuno si aspettava da me un romanzo simile. La mattina dopo mi ha telefonato informandomi che le era piaciuto molto e che lo voleva vendere, il che significava che non avevo azzeccato le previsioni: pensavo sarebbe stato uno di quei romanzi che si mettono nel cassetto e di cui non si parla più, di quelli che vengono pubblicati dopo la morte dell’autore.

Non il masterpiece, diciamo.

No, per niente. L’ho scritto in pochi mesi, di getto, senza tanti pensieri.

“Chiamami col tuo nome” è una grossa domanda aperta sulla letteratura come – complicata e sofferta – definizione del sé. Possiamo considerarlo un romanzo di formazione, da un certo punto di vista?

A me dà fastidio l’idea del romanzo di formazione, anche perché l’ho scritto quando già avevo superato i cinquant’anni e a quell’età è molto difficile mettersi nei panni di un ragazzo giovane come Elio. Eppure – secondo me – ognuno di noi prova quotidianamente il suo stesso sentimento nei confronti di un’altra persona, a prescindere dall’età. L’unica differenza è il turbamento della prima volta ma il desiderio, quello non cambia mai.

È un romanzo pensato per un target giovane o per tutte le età?

Vorrei pensare a “Chiamami col tuo nome” come un romanzo per  tutte le età. In questo momento è diventato un cult soprattutto tra i giovani, addirittura gente di 13 o 14 anni, soprattutto le ragazze. Però – devo dire – che ci sono anche molte signore anziane che provano piacere nel leggerlo, per non parlare di persone che adesso ha settanta o ottant’anni e che concentrano le proprie riflessioni sul padre di Elio, capendo che la loro vita avrebbe potuto prendere un altro tragitto se solo il loro padre fosse stato più amichevole. Ogni giorno mi scrivono, mi dicono che si commuovono così tanto quando leggono il libro o vedono il film, perché la figura del padre non è stata altrettanto presente nella loro vita.

Alla fine la storia di Elio è un po’ la storia di tutti.

È la storia di tutti, ma idealizzata: secondo me la letteratura deve essere idealizzata. La letteratura non è mai la vita, è un riflesso, una refrazione della vita.

André, sei l’unica persona a poter rispondere a questa domanda: prima il libro o il film?

Secondo me bisogna – in questo caso – vedere prima il film. Anzi, la visione del film fa crescere l’appetito e il libro conferma poi ciò che è stato desiderato dallo spettatore. Molti colleghi scrittori sostengono che il cinema non sia all’altezza della letteratura, io non la penso così: ho accolto la trasposizione cinematografica con la mente totalmente aperta, quello che mi interessava è che venisse mantenuto lo spirito del romanzo e così è stato. La letteratura è come una statua che non si muove, a un tratto il cinema le dà vita: la vedi muoversi, diventare una persona. È un lusso che noi scrittori non abbiamo e che il regista invece può permettersi. Ecco perché ci sono certe scene nel film che sono molto più commoventi rispetto al romanzo.

Chiamami col tuo nome cast completo Fonte: Getty Images

Poi c’è tutto il discorso sull’ambientazione: nella prima parte del romanzo – che occupa gran parte delle vicende – ci troviamo in una generica Riviera ligure. Si tratta di luoghi idealizzati o avevi in mente dei luoghi precisi?

Non avevo in mente luoghi precisi, era una combinazione mentale di luoghi che conoscevo bene: si inizia da Santa Margherita, fino a Bogliasco, Nervi, Bordighera. Un cumulo di località difficili da trasferire, nelle quali il mare non c’è eppure non manca.

Poi – una volta che ci si sposta a Roma – i luoghi tornano ad essere fisici, precisi, nominati.

Non ci ho pensato più di tanto, le scene romane sono più precise forse perché conosco Roma molto bene e volevo raccontare dettagliatamente questa parentesi. Oltretutto queste scene non sono presenti nel film, c’è solo una piccola gita a Bergamo che va a condensare tutta la fase dedicata a Roma. Manca il raduno con il poeta e con la gente a cena che – lo dico per la prima volta apertamente – è una trasposizione del banchetto di Platone.

Cos’è la Sindrome di San Clemente, che prende in prestito il nome – appunto – da un luogo di Roma: l’omonima Basilica?

Non l’ho mai dichiarato perché non volevo fare la parte del professore di letteratura, però la Sindrome di San Clemente è un fenomeno che si ripete per tutto il romanzo. Ognuno di noi possiede almeno quattro livelli: se si indaga uno di questi, si va a finire in un altro. Ogni cosa dentro di noi è frammentata, c’è sempre questa ambiguità – specialmente nella vita sessuale – per la quale non sappiamo veramente dove ci troviamo e ci muoviamo sempre da un livello all’altro, o da un posto all’altro. Questo concetto lo ripeto e lo spiego anche in un altro romanzo che si intitola “Variazioni su un tema originale”.

Dov’è Proust in “Call me by your name”?

Esiste in due forme, la prima è legata allo di stile, dato che mi è sempre piaciuta la cadenza che c’è nelle frasi di Proust. Non è solo una questione estetica e letteraria, c’è anche un significato: si tratta di un modo per esporre e rivelare man mano che si scrive certi aspetti che altrimenti nella frase corta non sarebbero mai riusciti ad emergere. Lo stile di Proust è un meccanismo molto originale che uso in quanto mi aiuta a rivelare cose che altrimenti non verrebbero mai rivelate: è un modo di scavare l’identità, purché si sappia che l’identità non può essere mai scavata completamente. L’altra questione di Proust che mi ha sempre affascinato ed è quindi presente in questo romanzo è la questione della memoria che si riaffiora man mano che si scrive. È proprio quello che ho cercato di fare in “Chiamami col tuo nome”, che in fondo è tutto un ricordo. Se non fosse stato un ricordo non sarebbe stato un romanzo, non avrei saputo scriverlo.

Un altro aspetto che ho trovato decisamente proustiano è il giocare di sottrazione a livello di plot per concentrarsi sull’intimità dei personaggi.

Diciamo che il personaggio principale – Elio – si esamina sempre, cerca di scavare dentro se stesso il più possibile perché si vuole conoscere, vuol capire quello che desidera e perché lo desidera. Questo è un lato decisamente proustiano, ovvero il fatto che la trama sia scarna. Oltretutto io non ho mai saputo scrivere una trama intricata e non mi ha mai neanche interessato farlo, la lascio ai romanzi gialli nei quali c’è sempre un personaggio con un baffo particolare o con una faccia storta. A me interessa principalmente l’energia che ogni personaggio emana, quasi mai descrivo la sua faccia perché non mi interessa.

È un caso che questo romanzo sia ambientato in una società – ancora per poco – lontana da smartphone e Social Network?

Assolutamente no. Pensa un po’ se a quel tempo fossero esistite queste tecnologia, ognuno sarebbe stato lì col suo telefonino o il suo computer, immaginati Elio che manda un Whatsapp a Oliver. La comunicazione sarebbe stata immediata, tutta la bellezza dell’ambiguità non sarebbe esistita e anche l’intimità si sarebbe svolta molto più rapidamente.

“Ho sempre pensato che i nostri amori più grandi siano quelli che ci hanno fatto amare ciò che siamo”. Non è una frase tratta dal romanzo, bensì una frase che hai detto durante un’intervista per spiegare il romanzo. Credo sia un’ottima summa della poetica di “Call me by your name” e anche un ottimo modo per concludere questa nostra bellissima conversazione.

Succede anche il contrario: che la persona che ci ha fatto odiare noi stessi, sia quella che ci ha anche colpito moltissimo, che ci ha distrutto. Però, la persona che ti fa amare quello che dici, che provi, che sei nel tuo intimo, è una persona molto importante nella vita. La persona che ti fa amare te stesso, la devi amare.

È un po’ la stessa inevitabilità del sentimento che permea tutto il romanzo. Che sia amore o odio qualcosa dev’essere, altrimenti è apatia, atarassia.

Terribile, l’atarassia. Anche quando non abbiamo nessuno da amare, bisogna sempre concedersi la fantasia di una persona, anche qualcuno che non conosciamo, qualcuno che incrociamo alla fermata dell’autobus ogni mattina. Questa persona ti fa soltanto desiderare, ma senza desiderio non saremmo vivi.

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