Chissà cosa sarebbe successo se nei corridoi dell’istituto svizzero Le Rosey, Albert Louis Hammond Jr. non avesse mai incrociato Julian Fernando Casablancas.
In quel caso – probabilmente – la storia della musica non avrebbe mai potuto contare su una delle più innovative band dell’ultimo ventennio, ecco cosa sarebbe successo. E il mondo non avrebbe conosciuto la straordinaria voce e abilità con la chitarra di Albert Hammond Jr., uno dei musicisti più virtuosi e polimorfi che l’America abbia mai sfornato.
Classe 1980, Albert Hammond Jr. è figlio del famoso cantautore americano Albert Hammond Sr: una condizione sicuramente ardua quella del futuro chitarrista degli Strokes, che però non si è fatto intimorire dall’ombra di suo padre, seppur non ami parlarne nelle interviste: una delle nostre domande sarebbe stata proprio sul loro rapporto, ma Albert ha preferito non rispondere in merito. C’è sicuramente da riconoscergli – però – di essere riuscito a camminare con le proprie gambe (e suonare con proprie braccia) ed è stato uno dei pochi figli d’arte a farsi conoscere per il suo talento, non per il suo cognome.
La storia degli Strokes inizia a mettere radici già da quando Albert Hammond aveva appena 13 anni. I genitori decisero di mandarlo nel già citato nonché prestigioso collegio svizzero a studiare e formarsi. Ed è stato tra i banchi di scuola che ha conosciuto Julian Casablancas, il futuro leader degli Strokes. Albert si è unito al gruppo composto da Julian Casablancas, Nikolai Fraiture, Nick Valensi, e Fabrizio Moretti nel 1998. L’avventura è durata diversi anni e grazie al loro rock ritmico e coinvolgente, sono ancora oggi ricordati come una delle rock band migliori dell’ultimo ventennio.
Come molti musicisti che hanno per anni fatto la storia in una rock band, anche Albert Hammond a un certo punto ha deciso che fosse meglio tentare la carriera da solista. Cimentarsi con nuove sfide, mettersi alla prova al di fuori degli Strokes: una decisione coraggiosa, senza dubbio. Il 9 ottobre 2006 è uscito il suo primo album, “Yours to Keep”, seguito due anni dopo da “¿Cómo Te Llama?”. Il 2015 è la volta di “Momentary Masters”. Al primo disco hanno partecipato anche gli ex membri degli Strokes, che hanno supportato Hammond nel suo lavoro.
Il nuovo album – invece – è uscito il 9 marzo: “Francis Trouble” ha riportato sulla scena uno degli artisti più duttili di sempre. Albert Hammond Jr. è tornato e siamo riusciti a scambiare quattro chiacchiere con lui proprio in occasione di questa release e del live di Milano, il prossimo 11 luglio al Magnolia.
Il 9 marzo è uscito “Francis Trouble”, il tuo quarto disco solista. Sono passati quasi quattro mesi ed è tempo di bilanci: come sta andando?
Oh, sta andando tutto alla grande! In questo momento stiamo per iniziare la parte estiva del tour mondiale, fino adesso ho passato qualche mese per capire come oliare al meglio il meccanismo. Speriamo che tutte le canzoni dell’album passino presto in radio e speriamo anche di poter fare un grande tour in America con l’avvento del nuovo anno, per tornare poi a suonare in Europa nei festival estivi del 2019 e in Sud America per il Lollapalooza.
“Francis Trouble” è il tuo quarto album da solista, il primo – “Yours To Keep” – risale al 2006. Che tipo di evoluzione personale e artistica c’è stata in questi 12 anni di carriera solista?
Sono cambiato così tanto a livello personale che è piuttosto difficile descrivere questi 12 anni di evoluzione, ma se volessi semplificare potrei dire che quando ho scritto “Yours To Keep” nel 2007 stavo semplicemente cercando di mettere un po’ il naso fuori dal mio appartamento e finire una canzone, non pensavo a molto altro. Con il tempo ho iniziato a ragionare su un disco e questo album che stavo scrivendo e mettendo in scena dal vivo era esattamente quel tipo di esperienza viscerale che mi forniva gli strumenti di cui avevo bisogno per essere il front-man che volevo essere. Ecco perché questo disco è stato un grande passo avanti, ma a dire il vero non ci ho pensato più di tanto, sai?
Chi è Francis Trouble, che dà il nome all’album?
In realtà Francis Trouble non è realmente qualcuno o qualcosa, è come un personaggio dei fumetti o un supereroe della Marvel nato in seguito a questa storia – che invece è vera – di aver perso il mio fratello gemello. E’ iniziato tutto come uno strumento di cui non mi rendevo conto realmente: lo usavo quando mi capitava di dover fare delle audizioni per recitare, quando mi sentivo un po’ fuori di me e via dicendo. Ecco quindi che appena sono tornato a comporre musica, ero in grado di approcciare questa creatura in modo diverso ed è cresciuta pian piano come un mio alter ego, con il suo nome e la sua storia. E quando ci penso- dal palco – mi permette di essere ancora quel bambino che avrebbe voluto esibirsi quando per la prima volta ho capito il mio amore verso la musica. Per questo Francis è molto è molto più vicino di quanto si possa pensare e vivrà per sempre.
Ti sei mai chiesto che tipo di fratello sarebbe stato Francis?
Certo, mi sono chiesto molte volte che tipo di fratello sarebbe stato Francis, anche se il suo vero nome non era questo. E poi non sarebbe stato soltanto un fratello o una sorella, sarebbe stato un gemello, che è ben altra cosa. Per cui sì, me lo sono chiesto parecchie volte e penso che sarebbe stato un fratello straordinario.
Pur essendo dedicato ad una persona morta, possiamo definire “Francis Trouble” una celebrazione della vita?
Sì, decisamente. Ho dedicato l’album a Francis perché quello era davvero l’unico modo in cui avevo voglia di usare il suo nome per il disco e quindi ho pensato che sarebbe stato bello chiamare come lui qualcosa di cui andavo così orgoglioso. Mi sentivo così vivo e così eccitato all’idea della creazione di questo album che mettere il suo nome era un po’ come dire: “guarda, fratello, mi hai aiutato un sacco! Sei il mio mentore, mi hai aiutato anche ad essere un padre e una persona migliore. E’ per te che ho riempito questo disco di colore e di energia”.
Quando hai iniziato una carriera solista – appunto nel 2006 – sembrava soltanto un piacevole diversivo dal tuo ruolo in una delle più importanti rock band del decennio. E’ ancora così o sta diventando oggi la tua strada principale?
Non credo ci sia mai stato un diversivo o una distrazione dagli Strokes, penso che questo sia piuttosto ciò che viene percepito. Ho sempre amato la musica in tutti i suoi aspetti: essere un cantante, un songwriter e un chitarrista. Suonando in una band, sono diventato un bravissimo e famosissimo chitarrista ma – come ti ho detto prima – avevo bisogno di iniziare a lasciare le mie demo a casa in e andare in studio a finire roba che fosse solo mia: è stato più un modo per migliorare me stesso. Quella con gli Strokes è una parte importante di me, così come lo è anche per loro: non penso che si possano dividere le strade in questo modo. La via che sto percorrendo oggi è quella dove mi sento chi sono io in questo momento della mia vita, ma proviene anche dal mio background, dai fan che mi sono guadagnato e – perché no – dai soldi che mi permettono di vivere della mia creatività.
Un paio di settimane fa ho intervistato Steve Hackett, il leggendario chitarrista dei Genesis. Volevo chiederti: quanto la tua chitarra è stata di rottura rispetto alla scena inglese che ti ha preceduto e quanto invece hai raccolto della tradizione musicale britannica di gruppi come – appunto – i Genesis, Dire Straits, Pink Floyd o i Police?
Sicuramente la scena inglese mi ha segnato: i Genesis…Mark Knopfler dei Dire Straits è stato un grande chitarrista…forse un po’ meno i Pink Floyd perché non sono mai entrato più di tanto dentro la loro musica. I Police li adoro, anche se non ho mai ragionato singolarmente sulla chitarra delle loro canzoni, ho apprezzato più quello che veniva fuori alla fine. Anche le canzoni dei Genesis le amo tremendamente: mi piace quel genere di chitarristi che – oltre a suonare – cantano e scrivono canzoni, che è anche stata un po’ la mia esperienza all’inizio. E anche adesso, quando mi capita di ascoltare un assolo di quel periodo penso “diamine, sembra che siano tre o quattro strumenti diversi condensati in uno”. Per cui sì, la scena inglese mi ha davvero segnato.
Parliamo un po’ del tour, che ti vedrà in Italia per un’unica data l’11 luglio al Magnolia. Innanzi tutto: è la prima volta che ti esibisci in Italia da solista?
In realtà no, ho già suonato in Italia nel 2013 per presentare il mio EP. Ho suonato a Bologna, a Milano e…quale diavolo è stato l’altro luogo? Non ricordo…
Roma?
Oh sì, è stato bellissimo! Abbiamo fatto sold out nei club…non vedo l’ora di tornare a suonare in Italia.
Ti trovi bene nel nostro Paese?
E’ un Paese bellissimo per vivere, il vostro: credo che l’Italia sia uno dei posti idilliaci migliori per chi vuole mangiare e vivere bene, c’è pieno di cibi e prodotti straordinari. Mi sarebbe piaciuto un sacco venire al Mugello per vedere il Moto GP, ma quest’anno purtroppo dopo Monaco non ho più avuto tempo.
Tornando al tour, puoi anticiparci qualcosa di quello che vedremo a Milano?
Posso dire che se verrete a vedermi, sarete trasportati in un’esperienza nuova ed emozionante che dimenticherete difficilmente.