Da musicista a leggenda: intervista esclusiva a Steve Hackett

Abbiamo incontrato Steve Hackett, storico chitarrista dei Genesis che da anni ha intrapreso una carriera solista: ecco cosa ci ha raccontato.

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Non tutti i musicisti possono permettersi il lusso di mutare quanto Steve Hackett abbia fatto nel corso della sua lunghissima e incredibile carriera: da chitarrista di una delle più importanti band della storia della musica – i Genesis – al percorso solista, dal rock alle contaminazioni più spinte, da semplice musicista a leggenda.

Eppure è proprio negli anni assieme ai Genesis che Hackett ha trovato il modo per esprimersi al meglio, a cominciare dall’album “Nursery Crime”, del 1971, che ancora oggi è considerato il capolavoro della band inglese, nonostante non abbia avuto particolare successo quando è uscito. Al contrario dell’album successivo, “Foxtrot”, uscito l’anno dopo, in cui è proprio la chitarra di Steve Hackett ad avere un ruolo fondamentale.
Il musicista inglese ha infatti sempre sperimentato nuove tecniche, come il tapping e lo sweep-picking, che lo hanno fatto diventare uno dei punti di riferimento per il rock progressive dell’epoca. Con “Selling England by the pound”, i Genesis toccano il loro apice e l’album diventa uno dei capisaldi del genere prog rock, secondo solo a “The dark side of the moon” dei Pink Floyd.

Steve Hackett è però stato anche il primo dei Genesis a pubblicare un album da solista, “Voyage of the acolyte”, a cui parteciparono anche due membri del gruppo, Phil Collins e Mike Rutherford. Le divergenze con i Genesis si fecero sentire subito dopo e Hackett preferì lasciarli, pur conservando, nella sua musica, molti “topoi” e atmosfere care alla band.

La sua discografia da solista ha un’impronta molto pop ma con un occhio a  tutti i tipi di influenze, soprattutto la musica classica, grande maestra  e Musa per Hackett.

Steve Hackett è stato un grandissimo innovatore e a lui si sono ispirati chitarristi come Eddie Van Halen e Brian May, solo per citarne alcuni. Nonostante le citate incomprensioni, il musicista non si è mai staccato del tutto dalla sua band e nel 2012 nasce “The Genesis revisited”, in cui Hackett ha riproposto – anche live – i maggiori successi dei Genesis.

Fino ad oggi, Hackett ha pubblicato ben 26 album da solista, di cui l’ultimo, “Wuthering Nights: Live In Birmingham” è un live registrato alla Symphny Hall di Birmingham nel maggio 2017 e uscito nel 2018.

Steve Hackett sarà in Italia a luglio per quattro concerti imperdibili: il 4 a Roma, al Foro Italico, il 6 a Mirano, Venezia al Summer Festival, l’8 a Gardone Riviera, Brescia, all’Anfiteatro Vittoriale e il 14 a Pistoia, nell’ambito del Pistoia Blues.

L’abbiamo incontrato per farci raccontare meglio come avviene la metamorfosi da musicista a leggenda. E anche per chiarire un po’ di incomprensioni sui Genesis.

intervista a Steve Hackett Fonte: Facebook

Iniziamo parlando un po’ del tuo ultimo lavoro in studio, più precisamente il venticinquesimo: “The Night Siren”. Da cosa nasce la scelta del titolo?

Il significato del titolo risiede in un certo senso nel pericolo rappresentato da quest’era buia che il mondo sta attraversando in questo momento storico. L’album stesso è la dimostrazione che persone proveniente di luoghi completamente diversi del mondo possano lavorare insieme pacificamente: ci sono 20 musicisti provenienti da Paesi diversi, Israeliani e Palestinesi che suonano e cantano assieme. E’ stato un grande regalo per me la dimostrazione che si potesse fare qualcosa del genere, a differenza di quello che sostengono alcuni politici, che stanno portando il mondo verso un disastro chiamato nazionalismo e globalizzazione. Dovremmo sempre osservare quella che è la direzione migliore, e questo album lo è per me: è un luogo dove le persone lavorano insieme per costruire un messaggio di pace. Pensa ad esempio a “Behind the smoke”,  che apre l’album, ed è una canzone sui rifugiati.

In questo senso, visto che hai sempre viaggiato tanto e per realizzare questo album hai girato anche di più, la sirena può essere anche quella creatura che ti tiene lontano dalla tradizione musicale, un po’ come un moderno Ulisse?

Esatto, la sirena può avere due significati ed è interessante tu abbia menzionato questa idea di Ulisse, che viaggia molto per poi tornare sempre allo stesso posto, ovvero alla tradizione.

Mi risulta che sei molto legato a tua moglie Jo, che ha contribuito anche a questo album: ci racconti meglio di questo amore grazie alla musica e per la musica? 

Jo e io ci siamo conosciuti molti anni fa; lei di mestiere fa la scrittrice e la filmaker e proprio per questo motivo abbiamo iniziato a scrivere insieme in svariati modi. L’aspetto più bello è che non eravamo impauriti da nulla perché ci amavamo e quando – ad esempio – qualcuno pensava ci fosse da sostituire una parola o una melodia con una migliore, semplicemente lo faceva. Io sono sempre stato abituato al contributo delle persone, penso sia un team a rendere forte il lavoro di un singolo. Ovviamente il mio nome è sul disco, perché io sono il prodotto, ma in realtà anche un mio album è frutto del lavoro di più persone.

Per uno come te che ha una produzione sterminata, sia da solo che in band, non dev’essere per niente facile cercare di non ripetersi. Quali sono i tuoi segreti per essere sempre innovativo?

Penso che da una parte il segreto sia sempre questo, ovvero lavorare con gli altri. E poi – ovviamente – viaggiare è un ottimo modo per essere innovativi, dato che il mondo è pieno di cose sorprendenti. Un musicista – in particolare – deve avere questa attitudine: essere ancorato al suo genere ma allo stesso tempo aperto alle contaminazioni. Io per esempio produco album rock, ma con influenze spinte anche dalla musica jazz, classica, gipsy, pop e blues. Addirittura spesso sono influenzato dalla letteratura, perché leggendo una certa storia o un certo autore mi sento in qualche modo suggestionato.

Mi piace questa apertura mentale, soprattutto per chi – come te – è a tutti gli effetti una leggenda. Per cui, ti vorrei chiedere: c’è una band o un cantante di genere completamente differente dal tuo, che però apprezzi molto?

Ce ne sono tanti, sia come chitarristi che come cantanti. Ultimamente mi piacciono molto gli artisti e le band che suonano con l’orchestra, adoro questo mix. Poi ovviamente mi piace molto tutta la musica inglese, anche quella passata, dai Beatles a Bob Dylan.

Proprio all’inizio di quest’anno, Phil Collins, Mike Rutheford e Tony Banks si sarebbero detti aperti ad una possibile reunion dei Genesis. Pensi che ciò diventerà realtà, ma soprattutto: prenderai parte anche tu?

Ogni volta che ai ragazzi viene chiesto individualmente, parlano sempre di una possibilità, ma attualmente non c’è mai niente di definito. Se questa reunion si farà davvero, io sarò senza dubbio felice di prenderne parte, ma in questo momento non ci sono piani di questo tipo.

Torniamo un attimo indietro al 1977, al culmine della carriera dei Genesis hai lasciato la band: perché?

Posso riassumerlo in una parola, in inglese è autonomy e penso che in italiano sia autonoma…

Autonomia.

Autonomia, autonomia (ride). E’ l’abilità e la possibilità di lavorare senza costrizioni. Ho lasciato i Genesis per avere la possibilità di sviluppare le mie idee.

Perché nella band non avevi più questa possibilità?

No, assolutamente. L’idea della band aveva funzionato in quel momento, ma contemporaneamente avevo anche una carriera da solista. Non ho assolutamente alcun rimpianto, anche se i Genesis sono stati un gruppo fantastico, probabilmente il migliore al mondo. Eppure credo che ciascuno debba essere in grado di sviluppare le proprie idee, se vuole lasciare un’impronta nel mondo della musica.

È vero che sei arrivato nei Genesis grazie ad un annuncio sul settimanale “Melody Maker”?

Oh, sì, verissimo. Erano cinque anni che cercavo una band di quel tipo: dall’età di 16 anni a 21, quando poi sono entrato nei Genesis; davvero tanti anni…

Suonerai in Italia per alcune date a luglio e una di queste è al Vittoriale, un luogo decisamente magico. Quanto è importante per te entrare in relazione durante un live con la location stessa nella quale ti esibisci?

Penso che a modo suo ogni luogo presenti una sfida e dipende anche da che musica stai suonando. Il luogo dove suoni è trasformato anche dall’ atmosfera magica che si crea tra il pubblico e il musicista. Quando un artista suona di fronte a un pubblico, il pubblico deve solo ascoltare e guardare. Ma per il musicista è diverso: quando suoni di fronte a un pubblico, devi mantenere la testa pulita e ricreare qualcosa per loro. È come se un musicista – durante una performance – ripitturasse ogni volta la Cappella Sistina: ricreare, ripitturare, riscrivere quello che abbiamo già scritto. Eppure – allo stesso tempo – il musicista sviluppa ogni volta un suono diverso, nessuna performance è uguale a quella prima e questo è ciò che rende autentico e originale il lavoro del musicista.

Visto che l’abbiamo citato, parliamo un po’ del nostro Paese: che tipo di relazione hai con l’Italia?

L’Italia – di fatto – è stato il primo Paese che ha davvero capito che musica facevo quando ero un giovane musicista, anche prima di quanto lo abbia fatto l’Inghilterra. E’ un paese che ha un patrimonio storico da preservare, anche solo camminando per le strade sei circondato da segni del passato combinati insieme con quello che oggi è il suo aspetto più moderno. E’ un Paese fuori dal tempo, un Paese straordinario: se mai un giorno dovessi lasciare l’Inghilterra penso che l’Italia sarebbe il primo della lista dei Paesi dove andrei a rifugiarmi e a cercare ispirazione.

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