Roma, 24 gen. (askanews) – I cinesi sono ben consapevoli del fatto che ogni minaccia nasconde un’opportunità. La stessa parola che rappresenta la crisi è divisa in due ideogrammi: il primo rappresenta il ‘pericolo’, il secondo opportunità’. Questa forma mentis peculiare basata sulla filosofia dello ‘yin’ e dello ‘yang’ trova una sua applicazione anche in politica estera e l’avvento alla Casa bianca di Donald Trump non sfugge a una lettura siffatta.
A guardare i primi passi dopo l’insediamento alla Casa bianca, le preoccupazioni sono evidenti. La frattura tra Washington e Pechino si è fatta ancor più profonda rispetto a quando, in campagna elettorale, Trump se la prendeva coi cinesi ‘manipolatori di moneta’ da contenere con opportuni dazi. Il fronte del conflitto verbale è ampio: il Mar cinese meridionale, il commercio, gli investimenti. Eppure, andando più in profondità, alla Cina non sembrano sfuggire gli spazi che la politica estera del miliardario diventato Commander-in-Chief potrebbero aprire.
Ieri Sean Spicer ha ammonito Pechino riguardo la sua rivendicazione territoriale su circa l’80 per cento del Mar cinese meridionale, in pieno conflitto con una serie di Paesi della regione e con il principio della ‘libertà di navigazione’ secondo gli Usa. Washington è pronta a far rispettare il proprio ‘interesse nazionale’ e quelli ‘internazionali’ nella regione. Si tratta di una minaccia che trova ancor più sostanza nelle dichiarazioni di Rex Tillerson, il segretario di Stato nominato, che ha ventilato l’ipotesi di bloccare l’accesso cinese alle isole contese da un punto di vista militare. La risposta del ministero degli Esteri di Pechino non si è fatta attendere: faremo valere i ‘nostri diritti’, ha spiegato la portavoce cinese Hua Chuying.
A Pechino, inoltre, è piaciuta se possibile ancor meno la messa in discussione da parte di Trump di un mantra dei rapporti bilaterali con gli Usa: il principio delunica Cina. Non solo Trump ha accettato di parlare, da presidente eletto, con la leader di Taiwan Tsai Ing-wen, nota per le sue posizioni che accarezzano l’indipendentismo, ma ha anche suggerito che potrebbe porre il principio delunica Cina sul piatto di negoziati commerciali, ricevendo un secco no da parte cinese.
Solo a prima vista meno significativo, c’è poi il fronte che si è aperto sugli aspetti ambientali. Trump vorrebbe ridiscutere gli accordi di Parigi sul cambiamento climatico, mentre Pechino sostiene di volerli rispettare comunque. Un ulteriore punto di contrasto che segnala in maniera molto pratica e immediata gli effetti dell’idea fondante della politica trumpiana, ‘America First’, a livello globale su un tema per il quale Pechino, angustiata da enormi problemi d’inquinamento, è diventata particolarmente sensibile.
‘America First’, insomma, mette a rischio la mondializzazione e la Cina è, certamente, tra i vincenti di questo processo storico.
Il presidente cinese Xi Jinping, parlando al World Economic Forum, non a caso ha esplicitato un’adesione alla globalizzazione che in anni passati avremmo potuto sentire dalla bocca di un governatore della Federal Reserve piuttosto che da quella di un austero leader comunista.
I punti di contrasto tra Cina e Stato uniti sono insomma evidenti, destinati certamente a esacerbare il clima tra le due principali potenze economiche del mondo in questa prima fase della presidenza Trump. Ma, attenzione: nel principio ‘yin’ (scuro, umido, lunare, femminile, ecc) c’è sempre una punta di ‘yang’ (chiaro, secco, solare, maschile, ecc.) e viceversa. La complementarità è alla base della visione del mondo cinese. E Trump, paradossalmente, risulta più complementare di Obama rispetto a Pechino. Quanto meno perché il ‘Pivot to Asia’ dell’ormai ex presidente ha rappresentato una maggiore presenza degli Usa in una regione che la Cina considera il naturale sbocco delle sue ambizioni geopolitiche.
la Cina sta prendendo maggiore iniziativa nelle sue relazioni con gli Usa, grazie all’incremento della sua forza. Per le relazioni bilaterali, l’idea di Trump di ‘America First’ ha dei pro e dei contro, ha sottolineato nel giorno dell’insediamento Wu Zhenglong, analista della Fondazione cinese per gli studi internazionali. ‘La Cina – ha continuato – può studiare le caratteristiche di questo modo di governare e prendere le misure corrispondenti. Il negativo può essere trasformato nel positivo per una migliore cooperazione’.
Questo approccio è evidente anche nelle dichiarazioni rilasciate ieri da Zhang Jun, un altissimo funzionario del ministero degli Esteri con incarico proprio agli affari economici, riprese dal Wall Street Journal. ‘Se è necessario per la Cina assumere il ruolo di leader, la Cina si assumerà questa responsabilità’, ha dichiarato. E ha aggiunto che questa responsabilità non se l’è auto-assegnata, ma gli è arrivata per il fatto che ‘la precedente prima linea si è messa da parte e ha lasciato la Cina in prima linea’.
Un esempio di questo fatto è il Partenariato trans-Pacifico (Tpp), l’accordo i libero scambio tra 12 Paesi delle due sponde dell’oceano (senza Cina e Russia) che punta a inglobare il 40 per cento dell’economia mondiale. Il grande promotore di questo accordo è stato Obama, che ha anche sconfitto le perplessità di partner come il Giappone. Ma Trump, in campagna elettorale, ha fatto capire che di questi accordi non ne vuole sapere perché fanno perdere posti di lavoro americani e vuole invece accordi bilaterali. Ieri, mentre il premier nipponico Shinzo Abe ancora diceva al suo parlamento di voler incontrare il neo-presidente per convincerlo della bontà del Tpp, Trump firmava l’uscita degli Usa dall’accordo. Dopo poche ore l’Australia, un alleato storico degli Usa e un importante Paese della regione, annunciava di avere ‘discussioni attive’ sostanzialmente per sostituire Washington con Pechino nel Tpp. Per inciso, Tokyo ha respinto l’idea di Canberra. Ma il messaggio cinese appare chiaro: in politica estera il vuoto non esiste e Pechino è pronta a riempire quello che America First’ trumpiano potrebbe creare.
D’altronde, ai cinesi non è sfuggito neanche il discorso fatto da Trump ai due principali alleati in Asia orientale: Corea del Sud e, soprattutto, Giappone. O Tokyo e Seoul mettono mano al portafoglio e contribuiscono maggiormente alla propria difesa, magari anche dotandosi di una deterrenza nucleare (argomento tabù in particolare in Giappone che ha subito Hiroshima e Nagasaki) o subiranno un ridimensionamento della presenza di forze americane.
Gli Usa hanno in Giappone circa 47mila uomini, in Corea del Sud poco meno di 30mila uomini. Un disimpegno americano lascerebbe alla Cina margini di consolidamento del proprio ruolo regionale che la politica di Obama non ha fornito. Thomas Wright della Brookings Institution ha scritto, citato da The Diplomat: ‘Russia e Cina avranno un’opportunità senza precedenti di ottenere in un solo mandato presidenziale ciò che pensavano che sarebbe successo in decenni: la distruzione del sistema di alleanze Usa. Questo in Asia orientale ma, guardando anche l’esordio di Trump con l’Europa e con la Nato, anche in Occidente