Intervista a Ernia: “Ragazzi, occhio a rincorrere false felicità"

Abbiamo chiacchierato un po’ con Ernia in occasione dell’uscita del doppio album “Come uccidere un Usignolo/67”

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Esce oggi “Come uccidere un Usignolo/67” il nuovo ambizioso progetto discografico di Ernia: 16 tracce ripartite su 2 cd di etichetta Thaurus Music con distribuzione Universal. Uno tra i rapper più promettenti della nuova generazione – classe ’93 – Matteo Professione (il vero nome di Ernia) è appena rientrato dal suo giro d’Italia: l’Usignolo Summer tour, che ha contato oltre 20 date estive dall’uscita dell’ep Come uccidere un usignolo.

Il nuovo lavoro di Ernia, che si avvale di importanti produzioni (da Parix a Shablo, passando per Marz, Lazza e Luke), analizza con una genuina e vagamente distaccata semplicità la vita quotidiana e lo scorrere del tempo, con lo sguardo critico e insoddisfatto che accomuna moltissimi giovani afflitti dai comportamenti, dalle aspettative e dalle problematiche che contraddistinguono la società contemporanea.

Un album sorprendente in cui le sonorità elettroniche e quelle più tipicamente trap s’intrecciano perfettamente, senza scordarsi di guardare con gratitudine all’hip-hop tradizionale. L’album di Ernia è arricchito inoltre da collaborazioni importanti, come il feat. con Guè Pequeno nel brano “Disgusting” o quello con Mecna in “Tradimento”.

Abbiamo fatto due chiacchiere con Ernia in occasione di questa importante release.

ernia disco Fonte: Redazione

“Come uccidere un usignolo” è un’altra traduzione di “To Kill a Mockingbird”, più conosciuto come “Il buio oltre la siepe”: mi racconti un po’ i motivi della scelta di questo titolo?

Riprendo il titolo originale perché viene da un passo importante del libro, durante il quale l’uccisione di un bracciante nero viene paragonata all’uccisione degli uccellini, per pura cattiveria. Io ho utilizzato questa metafora per sottolineare l’odio che abbiamo ricevuto in passato quando collaboravo con i “Troupe d’Elite: un odio assolutamente gratuito. Avevamo anche una ragazza nella formazione e si scagliavano spesso contro di lei senza limiti.

16 tracce non sono poi così tante, eppure hai scelto di ripartirle su due cd: perché?

La prima parte è uscita a giugno solo in digitale, ovvero in streaming e sulle piattaforme digitali. Vedendo che è andata molto bene, abbiamo deciso allora di completare l’opera.

Nei tuoi testi spesso racconti del difficile raggiungimento di uno stato di felicità, della precarietà dei rapporti umani – penso ad esempio ad un brano come “Amici” – e dell’incapacità dell’essere umano di realizzarsi pienamente. Secondo te i ragazzi di oggi come vivono queste dinamiche?

Penso che i ragazzi di oggi non se ne rendano ancora conto, ma riceveranno una grossa batosta. Viviamo in un mondo dove si cresce con l’idea che “tu sei speciale”, “sei unico”: ma non è così. I ragazzi mollano la scuola convinti di poter diventare il nuovo Guè Pequeno, ma non succederà. Quella che loro pensano sia la felicità, in realtà non lo è o quantomeno non lo è ora: per loro la felicità è fare tanti soldi in maniera facile, ma se partono con questa idea non ce la faranno mai. La colpa è un po’ anche nostra, dell’ego dei rapper. Se poi il rap è riuscito ad attirare così tanto l’attenzione, significa che è un po’ il mondo di adesso ad andare così: “se ci credi veramente ce la fai”. Non funziona così la vita: forse ce la fai se ti spacchi il culo. Ma solo forse, c’è una remota possibilità.

So che ami molto leggere: quali sono le influenze letterarie di questo doppio album?

A parte – ovviamente – la citazione ad Harper Lee nel titolo, gli ultimi tre pezzi del cd. 2 sono dei chiari riferimenti a Baudelaire.  Abbiamo “Spleen”, uno skit che introduce le ultime due: “La ballata di Mario Rossi” e “Noia”, che sono rispettivamente l’insoddisfazione e la noia, proprio come la ennui che troviamo in Baudelaire. Il senso di noia e di angoscia che provengono dall’apparente incapacità di raggiungere un ideàl, Baudelaire nei “Fiori del Male” contrappone spleen e ideàl: il primo è il senso di angoscia e di noia, il secondo è quello che inseguiamo, la ricerca della felicità.

In questo lavoro è forte la matrice cantautorale, addirittura portata all’estremo in alcuni brani quando arrivi a interrompere il flusso – il flow – per parlare e basta. Dato che – a detta di molti – i rapper di oggi saranno i cantautori di domani e secondo me già lo sono: se dovessi identificarti in un cantautore italiano, chi sceglieresti e perché?

A me piace De André, però non riesco a identificarmi in lui: una diversa preparazione culturale, una diversa sensibilità rispetto a quello che abbiamo vissuto. Ci sono delle cose di De André che non riuscire a scrivere neanche in un’altra vita.

C’è da dire che nell’hip-hop, così come nella tradizione cantautorale italiana, ci sono “le scuole” legate spesso a delle città: la scena genovese, la scena romana…

Sì, anche se ormai oggi sono tutte molto simili. I riferimenti sono gli stessi, anche la scena milanese è molto simile a quella genovese. Ci sono poi delle mosche bianche all’interno delle città e a parer mio essere una mosca bianca è ciò che può permettere all’artista di spiccare veramente. Quando tutti fanno una cosa, se la fai anche te non spiccherai; a questo punto conviene metterci più tempo, ma tentare di fare altro. È un po’ quello che provo a fare io, ovviamente stando nei canoni del rap: tante cose sono simili a quello che è di tendenza ora nelle mie sonorità, tuttavia cerco di renderle mie il più possibile.

Una cosa che mi colpisce e che apprezzo molto del tuo flow è il fatto che scandisci le parole in maniera quasi maniacale, a differenza di molti tuoi colleghi che finiscono per mangiare i loro stessi testi a favore di un presunto virtuosismo della velocità, che secondo me è solo un falso valore nell’hip hop.

In questo momento sta andando molto il mamborap, che è un rap balbettato, biascicato, voci basse e un po’ masticate. Però sai, nel momento in cui non hai nulla di preciso da comunicare può essere accettata anche questa visione stilistica. Nel momento in cui però devi essere chiaro, preciso e dire qualcosa, conviene esserlo anche a livello grammaticale e fonetico.

C’è un brano, contenuto nel secondo dei due cd, che mi ha colpito molto. Si intitola “Pas Ta Fête”: qui rappi – oltre che in italiano – anche in francese, con qualche vago richiamo verbale alla lingua tedesca. Mi è parso come se volessi provare ad aprirti un po’ alla scena europea, visto che dalla Francia e dalla Germania (oltre che dall’Italia) stanno arrivando in questo momento i prodotti più interessanti. È così?

Nel mio caso è un po’ diverso perché la maggior parte delle cose che dico vanno capite: non è solo musicalità fine a se stessa. Tanti altri artisti invece non dicono niente e giocano solo sulla musicalità, per questo molti italiani sono andati all’estero. Io in un panorama europeo vado a perdere: un tedesco che ascolta la mia musica ha una barriera linguistica, per quanto alcune cose gli possano arrivare. “Pas Ta Fête” mi è uscita invece di getto, nonostante in francese io sia ad un livello abbastanza basso, il B1. È un livello scolastico, utile per sopravvivere, ma non credo mi permetterebbe di fare qualcosa di più articolato in Francia.

“Se guardo i rapper in Italia di adesso, son buoni a fare le pubblicità regresso”, rappi in “QT”, il brano che apre questo progetto. Ogni riferimento a persone o fatti realmente esistenti è puramente casuale?

Facciamo che sia puramente casuale (ride).

Tra l’altro, tu sei stato tra i primi a lavorare con Ghali nel collettivo “Troupe d’Elite”. Ti piacerebbe collaborare di nuovo con lui?

No, non ne sento la necessità, abbiamo già lavorato tanto insieme.

E in che rapporti siete oggi?

Quando ci incontriamo ci salutiamo, ma non siamo più legati umanamente.

“Alzo il braccio perché cerco il wi-fi, parlan tutti di strada coi filtri, sulla fronte c’hanno scritto finti”. Che rapporto hai con i social?

Sto migliorando adesso con i social. Mi accorgo che un qualunque ragazzino di una decina di anni più piccolo di me, sui 14, è una macchina in confronto a me. Io sono ancora di quella generazione a cavallo, per noi i social sono arrivati quando di anni ne avevamo 17. Sì, c’era Msn, che però si usava dal computer, quindi solo quando eri in casa. Quando eri fuori ti trovavi nel mondo vero, nel mondo reale. Quindi mi accorgo che a volte c’è proprio un gap tecnologico tra me e chi mi ascolta.

Cosa ti sentiresti di dire a un giovane che misura la propria popolarità e il proprio valore in base al numero di like?

Per quanto puoi avere centinaia di migliaia di follower su Instagram, anche nel mio lavoro il risultato si calcola su quanta gente viene al concerto e quanta compra il tuo disco. La presenza sui social è fondamentale, ma quello che hai costruito e i risultati che puoi raccogliere sono soltanto fuori, nel mondo.

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