Intervista ai Coma Cose: “Benvenuti nel nostro hangover”

Abbiamo incontrato i Coma Cose. “Stiamo lavorando su pezzi nuovi: a fine settembre uscirà una release discografica”

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Per trasferirsi a Milano e mettere in piedi una band servono soldi, per fare musica in generale servono soldi e quando i soldi non ci sono si divide una camera in un trilocale, tante speranze e i turni in negozio. L’incontro avviene infatti in modo fortuito: i due lavorano entrambi come commessi in un negozio e parlano spesso di musica. Ecco che – quasi per caso – nell’inverno del 2016 prende vita COMA_COSE, un progetto composto da Fausto Lama, già musicista e produttore (lo conoscerete probabilmente nei panni di “Edipo”) e Francesca, alias dj California: voce e capelli corti. Il rap, l’elettronica, e due chiacchiere sotto casa mentre chiudono i bar del Naviglio Pavese, il tabaccaio di Via Gola, la fragilità di capirsi e le riflessioni cosmiche sulla quotidianità: “Portami in un posto con la musica abbastanza alta che mi dimentico”. Coma_Cose racconta la Milano che abita, l’attitudine urbana, la lontananza e la “presabene”. Il tutto attraversato da un immaginario crepuscolare metropolitano (“La nostra musica è come gli ingressi dei palazzi di Milano di notte”) e una poetica che si allontana da quella brutale “di periferia”, che va tanto di moda adesso. Per ora hanno all’attivo soltanto quattro brani, tutti corredati da ricercatissimi videoclip, ma “stiamo lavorando sulle cose nuove: verso fine settembre uscirà una release discografica, che potrebbe essere un album o un EP”, ci confida Fausto.

Coma Cose intervista Fonte: Redazione

Sono passati a trovarci in una calda mattinata di fine luglio e ne abbiamo approfittato per capire qualcosa di più su che intenzioni hanno. A quanto pare, serie.

Partiamo dalle basi: da dove ha origine un nome così originale?

(Fausto) Ci abbiamo messo un po’: all’inizio doveva essere soltanto “Coma”, oppure “Koma”. Cercavamo un nome che rappresentasse un po’ uno stato mentale: la nostra musica ha un 50% di “vita vera” e un 50% di critica sociale, con tanta ironia e cognizione di causa. Ecco che Coma voleva essere un nome provocatorio riferito ad un momento storico  e sociale in cui bisogna un po’ svegliarsi, inoltre richiamava anche l’immaginario più classico dell’hangover, il coma post- serata. Soltanto che, quando abbiamo deciso di creare il profilo Instagram del gruppo, abbiamo notato che “Coma” era già occupato. E allora ci siamo messi a pensare a qualcosa che avesse a che fare con coma, le cose che hanno a che fare con coma…coma cose. Basta. Trovato, stava bene.

Per il momento avete pubblicato soltanto quattro pezzi, ognuno di questi corredato da un video con un’estetica ben connotata. Per il lancio di “Jugoslavia” avete dato agli utenti la possibilità di realizzare una figurina personalizzata da condividere poi sui social. Oserei dire, un immaginario quasi anni ’90.

(Fausto) Sicuramente gli anni ’90 sono latenti nel nostro DNA musicale, un’attitudine è evidente. Poi noi facciamo le cose che ci vengono di fare. I video sono molto pensati, ci lavoriamo tanto: abbiamo trovato questi ragazzi di Torino che si chiamano Crooners Films. Sono molto bravi ad assecondare le nostre idee e a dargli una rotondità. L’idea, lo scouting location, la sensazione di fondo, quello facciamo tutto noi: andiamo di notte in giro per Milano a cercare i capannoni.

(Francesca) A livello di testi, rime e anche di contenuti, sì, ci ricolleghiamo al rap anni ’90.

Su Fausto sappiamo molto, su Francesca molto poco: da dove vieni, musicalmente parlando e non?

(Francesca) Io sono friulana, di Pordenone, e ho sempre avuto amici che facevano musica, dal punk al rap. A questo genere sono appassionata fin da ragazzina: è stata la prima musica che ho deciso di ascoltare. Sai, la sera si andava al parchetto a fare freestyle, due di loro avevano anche uno studio di registrazione e il primo approccio l’ho avuto con loro: quando registravano, spesso mi chiedevano di cantargli il ritornello. Poi sono venuta a Milano e ho studiato tutt’altro: scenografia. Mi sono pian piano appassionata anche al mondo della musica techno, infatti da lì nasce il nickname DJ California, mi è sempre piaciuto smanettare coi suoni. Fausto l’ho conosciuto in un negozio, in quel momento della vita facevamo i commessi e mi ha iniziato a parlare di questo progetto che aveva in mente, mi ha fatto sentire i primi provini e – anche lui –  mi ha chiesto se mi andava di registrare qualcosa, visto che avevo già avuto a che fare con questo tipo di dinamica. Li abbiamo fatti sentire un po’ in giro e sono piaciuti: è nato tutto così, in maniera abbastanza spontanea.

(Fausto) Esatto, non era previsto. Dopo aver registrato questi provini li ho fatti sentire a un po’ di amici e addetti ai lavori, aggiungendo “No, ma questo è solo un provino, poi lo cambiamo” e mi dicevano: “Ma sei matto? Guarda che funziona: la voce, voi due, un po’ tutto”. Allora ci siamo guardati e ci siamo resi conto di essere già a fuoco.

In effetti, ad essere immersi nelle cose – spesso – si perde la visione esterna di un progetto o di un’opera. Comunque, sarà per l’estetica, sarà forse per quel pizzico di autoironia: mi avete ricordato i Crystal Castles. Diciamo la versione italiana dei Crystal Castles. Vi piace come paragone?

(Fausto) Beh, sì (ride). A parte che esteticamente mi piacerebbe essere alto, esotico e con i capelli lunghi…

Diciamo che non c’è di mezzo il rap, però l’attitudine è simile.

(Fausto) Sì, alla fine si tratta – in entrambi i casi – di due mondi disparati che si trovano, si uniscono e arrivano ad un loro “balance”, facendo nascere qualcosa di prorompente e vero. Per cui lo prendo come un complimento e dico wow, ovviamente con tutte le precauzioni del caso: siamo italiani e figli della pasta al sugo. Per esempio un gruppo che ci piace molto sono i Die Antwoord, anche nel loro caso l’attitudine è quella forse di fregarsene di molte cose, mettere delle forze sul tavolo e divertirsi con la musica. Forse è proprio questo è il motivo per cui abbiamo fatto poche canzoni, per il momento: deve accendersi una scintilla, sennò non riusciamo.

Citavamo prima Alessio Bertallot, dal quale vi ho ascoltati per la prima volta e probabilmente è anche il deus ex machina di questa intervista. Come giustamente fa notare, è difficile trovare chi si pone un problema politico e morale relativamente al testo, soprattutto sulla nuova scena rap italiana, spesso fin troppo brutale da questo punto di vista. Voi invece mantenete una chiara poetica, nel significato più autentico del termine. Perché avete deciso di distinguervi così tanto da quello che va di moda oggi?

(Fausto) Non saremmo capaci di fare la trap, facciamo quello che ci viene spontaneo. Quello che mi fa piacere è che sono cambiati i meccanismi di fruizione del testo: in questo momento funziona fortunatamente il testo composto da istantanee e non da concetti cosmici. Questa cosa si è liberalizzata forse anche grazie alla trap e al fatto che ti parla delle focaccine. Le focaccine in realtà, vanno bene come esempio estremo: se esiste quello, così come esiste – per dire – Guccini, significa che sono stati scritti i parametri che permettono a persone come me e Francesca di far coesistere in una canzone una frecciata e un disagio, con un racconto leggero. Perché la vita è così, non siamo mono-tasking nelle sensazioni che proviamo, non è più necessario distinguere: questa è la canzone “presabene”, questa è la canzone del sabato sera, questa è la canzone per il party. Basta, è ora finirla. Sono arrabbiato col vicino di casa perché ha la musica alta, però sono felice perché mi mangio una pizza, però sono anche triste perché vedo in tv un talk show politico. Questo facciamo nei testi, buttiamo dentro tutto. Il difficile è più scegliere, andare di sottrazione: quando decidiamo di fare una canzone sul tavolo ci sono diecimila fotografie e dobbiamo sceglierne cinque.

Visto che hai citato Guccini, ho notato che c’è una sorta di ossessione da parte della nuova scena indie italiana verso quel mondo, sia nel bene che nel male: penso ad esempio al povero De Gregori in “Limonata” di Calcutta e nella vostra “Deserto”.  Oltretutto proprio voi sostenete che la matrice cantautorale faccia parte da sempre del linguaggio di strada e che i cantautori, quelli degli anni 60 e 70, se fossero nati oggi farebbero rap.

(Fausto) È una provocazione. Sono quegli artisti che ti puliscono le orecchie e chiunque fa musica dovrebbe pulirsi le orecchie, ogni tanto. Forse più Guccini, però anche De Gregori. Sono tutti dei rapper: se tu avessi le “a cappella” e le mettessi su dei beat, puoi farci le canzoni: sono in rima, tutto in metrica, è matematico. De André più di tutti: equazioni col goniometro. Come avrai notato, sono molto affascinato proprio dall’aspetto tecnico-sillabico.


Parliamo un po’ di Milano, presenza fissa in tutti i vostri pezzi usciti finora. C’è un legame “odi et amo” con la città: la sfrutto per le opportunità che mi offre, ma ne scappo appena posso. Soprattutto in questo periodo, Milano è a tutti gli effetti un ‘Deserto’, tanto per citare un vostro brano. Mi raccontate un po’ il rapporto che avete con la città?

(Francesca) Io ci vivo ormai da otto anni e torno molto poco a casa. I primi anni sono stati abbastanza difficili, perché ci ho messo un po’ ad abituarmi alla città. Negli ultimi tre o quattro anni – invece – ho cominciato ad apprezzarla davvero e mi sono resa conto che mi piace molto.

(Fausto) Fondamentalmente siamo dei provinciali e secondo me tutta Milano è fatta di provinciali: di milanesi quanti ne conosci? Speriamo che magari qualcuno vi si possa riconoscere. E’ un po’ inedito come punto di vista: parlare da provinciali che abitano la città davvero. Ridendo e scherzando sono dieci anni che siamo qua, eppure ci sentiamo sempre un po’ outsider, alla fine nessuno di noi è di Milano.

Vorrei scendere ancora un po’ più a fondo, geograficamente parlando: il vostro quartiere se non erro è il Giambellino. Che significato ha per voi il quartiere, la kasbah?

(Fausto) C’è molto pregiudizio, in realtà è un quartiere tranquillo, non è poi così vivo. Del resto, quali sono i punti di aggregazione, Piazza Tirana?

(Francesca) I giovani non ci sono, ci sono molte case popolari con anziani che vivono lì ormai da decenni ed extracomunitari.

(Fausto) La verità è che forse non sappiamo come viverlo.

Ho letto di voi una cosa che condivido: le canzoni non si spiegano. Eppure una curiosità me la dovete togliere: “24 maggio calamari” è per via del chiosco del pesce che c’è in Piazza 24 maggio?

(Fausto) Sì, è assolutamente quello. La figura poetica del calamaro è arrivata dopo, con il video. All’inizio, nasceva più dalla sensazione di disagio per via della puzza di fritto che sentivamo tutte le volte che passavamo di lì, soprattutto in inverno.

(Francesca) Poi era il periodo di Expo, quindi cibo dappertutto, non ne potevamo più.

Un’ ultima domanda: in chi identificate il vostro pubblico? 

(Fausto) Parlo a livello cosmico: faccio musica perché mi sento solo. E come fai a sentirti meno solo? Vai al bar e magari cerchi di intercettare qualcuno che abbia degli aspetti simili. Da questo punto di vista la musica è un ottimo faro ed è un modo per velocizzare questo processo. Quindi speriamo di trovare gente simile a noi, gente che vive a Milano da provinciali, come dicevamo prima, e che si sente parte di qualcosa di grosso, pur avendo voglia di mantenere una radice propria, un suo spirito critico. Possibile che ti piaccia tutto di un cantante? Possibile che ti piaccia tutto di una marca di vestiti? Basta, liberalizziamo la scelta: io posso andare al ristorante, ordinare un piatto, pur facendomi schifo gli altri dieci. Cerchiamo gente così, a cui piace anche solo una nostra canzone. Io sarei contento, anche io sono così.
Poi – per essere più concreti – diciamo che identifico il nostro pubblico in quella sfera di universitari un po’ più attenti alle nuove tendenze, ovvero quelle di mischiare i generi. Dal rap all’indie, c’è di mezzo una voglia di incontrarsi che nell’ultimo anno ha cominciato a sentirsi e gruppi come noi sono la proposta più papabile. Speriamo di trovare gente che abbia voglia di abbracciare le nostre “cose” e crescere con loro. Il “cose” è proprio perché si tratta di una massa aperta, vediamo dove ci porta. I nuovi brani li stiamo scrivendo anche per i feedback che ci sono arrivati: non per andare a seguire il pubblico, ma perché ci aiuta, è terapeutico.

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