Intervista a Samuel Heron: "Sono triste, anche se non va di moda"

Il giorno dell'uscita del suo album "Triste", il rapper Samuel Heron si racconta in esclusiva in questa intervista.

17 Maggio 2019

Nel pieno della stagione dei social, in cui tutto è o deve essere sempre necessariamente bello e positivo, essere triste non va di moda. Eppure si tratta di un sentimento comune alla maggior parte delle persone che vivono il conflitto di un mondo ostile e disorganizzato, che ostacola il raggiungimento della soddisfazione personale e degli obiettivi prefissati. Samuel Heron è uno di questi e non ha paura di mostrare al mondo anche questo suo lato.

Frequenta poco il resto della scena, pensa molto e conserva dentro di sè una disciplina quasi zen: praticamente un altro artista rispetto a quello che eravamo abituati a conoscere fino ad oggi. E  l’occasione per mostrarsi così è proprio l’uscita del suo primo album – intitolato appunto “Triste” – che è anche un invito a liberarsi da inutili fardelli e a svelare la nostra essenza.

L’album – che sfidando la superstizione esce oggi, venerdì 17 –  rivela un maggior grado di consapevolezza e maturità nel percorso – musicale e artistico, nonché personale – di Samuel, il quale, superando gli ostacoli, con determinazione e volontà, non hai mai smesso di ricercare la propria vera identità. Con questo progetto il rapper si mostra per ciò che è veramente: un’artista estremamente versatile e dotato di una sensibilità rara, un talento poliedrico senza eguali nella scena hip hop contemporanea.

Abbiamo incontrato Samuel e ci siamo farri raccontare questo lavoro direttamente da lui.

“Triste”, partiamo proprio dal titolo di questo nuovo progetto. Come si adatta questo sentimento al resto della tua produzione, che è invece ironica e spensierata?

L’ho scelto proprio per far capire da subito che c’è un contrasto tra quella che è stata la percezione nei confronti del mio personaggio e della mia musica, entrambi associati più alla spensieratezza e all’irriverenza. In realtà quella è solo una piccolissima parte di Samuel e il titolo sta un po’ come un avviso. La mia speranza era quella di far scattare la domanda: perché triste, dato che Samuel non sembra triste? Sono sempre in conflitto con questo lato più sensibile e malinconico, e volevo metterlo in chiaro fin da subito.

Come mai non era mai emerso prima questo tuo lato?

Nella mia carriera solista ho fatto un paio di pezzi un po’ più intimi, però alla fine sono stati sempre contornati da un mio modo di fare e da una comunicazione più allegra e positiva. Ci sono arrivato ora perché ho avuto delle problematiche a livello personale e mi sono dedicato al disco: ho avuto molto tempo per pensare e questa non è mai una buona cosa per gente come me. Ho avuto tempo per fare un’autoanalisi su quello che volevo essere agli occhi degli altri: finalmente mi sono potuto lasciare andare, anche musicalmente parlando. Ho lavorato con produttori diversi, mi sono sbloccato nel modo di scrivere, nel pensare la musica e nel comprendere le priorità.

Il tuo immaginario estetico è sempre stato legato all’oriente: questo album procede in quella direzione o si distacca anche in questo?

Il mio logo rappresentativo- ovvero il gatto che muove la mano – rimarrà, anche perché è simbolo di buon auspicio. Però graficamente e contenutisticamente non sarà più così associato, sempre per far capire che c’è stato cambio.

“Londra”, il featuring con Lo Stato Sociale, sarà il primo singolo estratto di questo album: come vi siete conosciuti?

Ho conosciuto Lodo ad uno dei primi live che ho fatto a Milano, ai Magazzini Generali. Era venuto con alcuni dei ragazzi de Lo Stato Sociale ed erano proprio interessati alla musica. Da lì è nata una sorta di amicizia e anche una frequentazione: ci siamo sempre sentiti e quando ho scritto questo pezzo, sentivo di aver bisogno di un ritornello con una voce maschile e ho pensato subito a Lodo. Così gli ho girato il pezzo e luicasualmente si trovava a Londra, perché la sua ragazza abita lì. Quando è tornato, è venuto da me in studio e abbiamo registrato la sua parte. E’ stato molto bello perché nonostante la sua esposizione mediatica ha mantenuto una naturalezza e una genuinità incredibile nei confronti della musica e anche delle persone.

Quello con Lo Stato Sociale non è l’unico featuring dell’album?

No, ce ne sono altri due. Mentre “Londra” ha qualcosa di più intenso e personale, con Tony Effe ci siamo lasciati andare su quello che è l’aspetto più tamarro, che è anche una parte del mio carattere. Avevo abbozzato una produzione e abbiamo registrato su quella, poi è stata affinata in un secondo momento dal Team Itaca, che è la mia squadra composta da Merk & Kremont, Leonardo Grillotti ed Eugenio Maimone. Loro hanno affinato la produzione e gli hanno dato veramente un tocco di internazionalità. L’ultimo dei feat. dell’album è su “Gang Gang (prima)”,  il primo pezzo che ho scritto ed è stato impreziosito dagli scratch di Ty1. Anche con lui ho un rapporto personale, per cui possiamo dire che sono tutti featuring nati dalla spontaneità di un rapporto. Oltretutto lui è il “colpevole” di aver trovato il campione dei Sangue Misto, completamente inedito, che loro usavano solo nei live. Per me è un onore incredibile: avere nel 2019 un vocal che è una pietra miliare dell’hip-hop italiano mi ha reso totalmente orgoglioso.

Una curiosità: ho letto casualmente “Heron” viene da Gil Scott Heron e non – come pensavo io – da Heron Preston.

Non voglio essere cattivo, ma penso che non esistesse ancora il brand quando mi sono scelto il nome. (ride) A parte gli scherzi, ho preso in prestito il cognome di Gil Scott Heron perché mi sono formato principalmente con il soul e la black music e nei primi anni è stato sicuramente lui l’artista che ho massacrato di più. Ho ascoltato in maniera viscerale la sua musica, anche perchè è stato uno dei primi ad usare delle metriche che possono in qualche modo assomigliare ad una forma arcaica di rap. E’ sicuramente uno dei miei artisti preferiti e ai quali sono più legato.

A proposito del passato, è vero che sei molto legato anche al ballo come forma espressiva?

Sì, ho iniziato a cavallo del 2002/2003 a ballare hip-hop. Sono stato subito rapito dal ballo ma anche da tutto quello che vi ruotava attorno: musica, graffiti, DJing… Ho ballato per tanti anni, con una compagnia a La Spezia che mi ha permesso di girare un po’ tutta l’Italia: è stata un esperienza di vita molto importante e sempre in un ambiente molto sano. Rispetto al rap e a come veniva percepito, il ballo è sempre stato un ambiente più pulito. Oltre alle esperienze di vita, mi ha insegnato la disciplina, lo stare in gruppo e rispettare le figure di leadership

Dopo l’uscita di “Triste”, stai preparando già un giro di live?

Quest’estate ci godremo una dimensione di dj-set in locali e discoteche, per poi andare a costruire in autunno uno show più a tutto tondo, che integri più aspetti e non solo quello musicale.

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