Intervista a Mostro: "Sono tornato. Ed è un problema per tutti"

Abbiamo intervistato Mostro, a pochi giorni dall’uscita del suo nuovo album “Ogni maledetto giorno”.

5 Settembre 2017

È già trascorsa quasi una settimana dall’uscita di “Ogni maledetto giorno”, eppure Giorgio Ferrario – in arte Mostro – è ancora all’apice di tutte le classifiche di vendita dei digital stores. Niente male per un ragazzo di appena 25 anni, tra i nomi di punta della nuova scena rap romana, noto a molti per le passate collaborazioni con il collega LowLow. Il disco è prodotto interamente dal duo Enemies e all’interno ci sono tre featuring: quello con Sercho, Jamil e il giovanissimo Shiva. Il risultato sono 12 tracce (a cui si aggiungono anche quattro bonus track) di hip hop puro, cattivo ed energico, con una sottile e nerissima ironia a fare da filo rosso. In “Ogni maledetto giorno” troviamo un Mostro cresciuto, che ha definitivamente aperto la gabbia – mentale e non – fatta di paure, ma anche di crescita e voglia di trovare il proprio posto nel mondo.

Tra un instore e l’altro, Supereva lo ha incontrato per parlare del nuovo lavoro, ma non solo.

Hai scritto in un recente post Facebook: “Questo disco è un urlo. Un urlo che spacca il silenzio, durato troppo tempo. Ho scritto quest’album in uno dei momenti più complicati della mia vita, ho perso molte persone vicino, ho perso dei punti di riferimento per me fondamentali, nel giro di pochi mesi la mia vita è cambiata drasticamente e tutto sembrava precipitare.” Cos’è successo in questo periodo?

Ho scritto questo disco in un momento complicato della mia vita, durante il quale avevo perso delle persone intorno a me, dal punto di vista lavorativo, sentimentale e personale. Mi sentivo mancare la terra sotto i piedi, come se fosse precipitato tutto quello che prima era per me qualcosa di solido. Di conseguenza sono ripartito completamente da zero, sotto le macerie di tutto questo gran casino ed è uscito questo disco fortissimo.

“Ogni maledetto giorno” è un album molto fisico: c’è il freddo del ghiaccio, il caldo delle fiamme, il rosso acceso del sangue, l’affanno della corsa, l’odio, l’amore. È un po’ lo stesso tipo di approccio che hai con la musica?

Probabilmente sì: è qualcosa che amo, ma questo amore me lo devo andare a cercare in mezzo a tante altre cose che non fanno parte della mia personalità. Hai detto bene, è un disco che rispecchia molto quello che sono e quello che è il mio rapporto con la musica, che poi è anche ciò che sfrutto nella vita per farmi strada. È per questo che un mood così aggressivo, ma sotto c’è sempre una ricerca d’amore.

“Io non sono un rapper, io sono un problema che cresce proporzionalmente a quanto questa roba vende”. Per chi ti ritieni essere un problema?

Ho un attitudine molto competitiva, per cui penso di essere un problema per tutti gli altri rapper presenti sulla scena, i quali finché non era uscito il mio disco stavano tranquilli a casa pensando che andasse tutto bene. Però adesso che è uscito l’album e siamo tornati primi in classifica, diventiamo effettivamente un problema per tutti i quanti.

Sanremo, Grande Fratello, c’è molta tv nazional-popolare nell’album, ovviamente in chiave irrisoria. Se ti capitasse l’occasione, andresti in tv?

Dipende a fare cosa. Se posso andare in tv a parlare o dire qualcosa di interessante, assolutamente sì: non sono contro a prescindere. Mi piace smontare l’immaginario di questi programmi più brutti e inutili come “Grande Fratello” o “Sanremo”, ma se mi dovesse capitare di partecipare ad un programma interessante dove posso parlare di me e della mia storia, lo farei sicuramente. Se devo andare a fare il buffone, no.

Uno dei brani del tuo album che più mi ha colpito è “Attraversa la città”. Di chi parli?

In quel brano, più che di una persona specifica parlo di una situazione: questo ragazzo che nella prima strofa è totalmente scontento della vita che svolge. Non si capisce bene di cosa sto parlando: dico che ha dei lividi sulle braccia però sta andando al lavoro, odia tutte le persone che stanno lì, odia il lavoro che fa. Però resiste, perché ha un pensiero in testa: quando uscirà, andrà a fare gli allenamenti di pugilato, la sua principale ragione di vita. Di conseguenza, nella seconda strofa viene trattato tutto quest’altro aspetto, che è appunto il pugilato. È una situazione che si può paragonare a chiunque stia combattendo per qualcosa, per continuare quello in cui crede.

Ricorre spesso nel rap questo topos del pugile come figura retorica del lottatore, della persona che non si dà per vinta.

Sicuramente sì, lì fuori è una guerra. Quando sei sul ring, puoi salvare solo te stesso e puoi contare soltanto sui tuoi pugni, ovvero le tue rime.

Tu fai sport?

Ho fatto sport per molti anni e devo ammettere che adesso mi sono un po’ fermato. Ho fatto di tutto: atletica, nuoto, calcio, judo, ma non ho mai trovato la mia strada nello sport.

A differenza del tuo collega Low Low, che di recente si trasferito a Milano, tu sei rimasto a vivere a Roma. Hai ancora un rapporto stretto con la tua città e con il tuo quartiere, Balduina?

Roma è sempre stata il nostro punto di partenza, però allo stesso tempo è anche una città molto grande che ti fornisce ogni volta delle nuove possibilità e non ti limita semplicemente a quello spazio. È la città che amo e in questo momento non ho voglia di spostarmi, anche perché tutto il lavoro è lì: l’etichetta, il manager, siamo tutti lì.

Adesso torniamo un po’ indietro. Cosa avevi in mente quando hai iniziato a rappare con il tuo gruppo, “ill movement”: c’era un progetto?

No, niente. C’erano tante rime e tanto odio, semplicemente questo. Forse è questa l’unica cosa che un po’ mi manca: eravamo dei ragazzi sprovveduti, ingenui, non c’era un progetto o la pressione di dover accontentare un pubblico a livello di vendite. Non c’era niente, c’era esclusivamente la voglia di fare e un microfono davanti a noi. Credo sia stata proprio questa attitudine genuina a lanciarci, la gente l’ha percepita.

Leggo un po’ di nostalgia nelle tue parole: ti senti cresciuto in questi anni?

Si cresce e si cambia: non mi guardo indietro con rimpianti o rimorsi. È poi ovvio che quando si ricorda il primissimo progetto c’è un po’ di nostalgia, è normale. D’altro canto, ricordo che non ero per niente tranquillo in quel periodo, andavo in studio e mi chiedevo “Se questa roba non funziona, per chi la sto facendo?”, mentre adesso c’è una sicurezza da parte del pubblico che ti segue, qualcosa di un po’ più garantito. Prima era tutta una grande incognita, adesso è diverso: si ha un po’ di pressione perché bisogna tenere conto del fatto che c’è un pubblico che ascolta, delle scadenze, delle vendite e dei numeri più pressanti, dall’altra parte però sai che quello che stai facendo funziona e ha un seguito, è il rovescio della medaglia.

Che cosa ti sarebbe piaciuto fare se non fossi un rapper?

Mi sarebbe piaciuto dipingere. Tutto meno che lavorare. (ride, nda.)

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