L’invidia è una brutta bestia, lo dice la scienza

L'invidia è il sentimento più diffuso fra i quattro tipi basilari di personalità. Lo rivela una ricerca spagnola, che spiega come a essere invidioso sarebbe almeno il 30% di noi

20 Settembre 2016
Fonte: flickr

E’ l’invidia il sentimento dominante nella maggior parte delle persone, la postura emotiva più comune ogni qualvolta ci troviamo a esprimere giudizi e valutazioni, su di noi e sugli altri. Di più: essere invidiosi è lo stato d’animo che orienta le decisioni quotidiane di miliardi di individui, condizionandone le decisioni di fronte a un qualsiasi dilemma sociale. No, non è l’opinione di un qualche filosofo di ieri o di oggi col gusto della misantropia, ma le conclusioni a cui è giunta una ricerca dell’Università Carlos III di Madrid e pubblicata sulla rivista “Science Advances”. Secondo questo studio, che si inserisce a pieno titolo nella teoria dei giochi e che applica ai comportamenti umani un algoritmo già sperimentato con successo in altri campi come la biologia, il 90% della popolazione può essere suddiviso in quattro tipi basilari di personalità: l’ottimista, che persegue sempre il risultato migliore; il pessimista, desideroso di limitare i danni; il fiducioso, orientato alla cooperazione e scarsamente competitivo; l’invidioso, interessato solo a primeggiare sugli altri.

Secondo i ricercatori spagnoli, proprio quest’ultimo sarebbe il tipo psicologico più diffuso: il 30% delle persone sarebbe infatti classificabile in questa poco invidiabile categoria che evoca anatemi religiosi e gironi danteschi, mentre gli altri gruppi si dividerebbero equamente la parte restante di popolazione. Attenzione, però: l’algoritmo non è stato in grado di classificare e di collocare con precisione in una delle quattro categorie il 10% dei 541 volontari intervistati. Qual è l’atteggiamento, secondo l’università di Madrid, che definisce l’invidioso? La continua tendenza al confronto, il bisogno di misurare i propri risultati con quelli ottenuti dagli altri, a prescindere da ciò che egli riesce effettivamente a realizzare. Prendendo gli altri come metro di misura, l’invidioso non attribuisce valore al raggiungimento di un certo obiettivo, ma si preoccupa solo di primeggiare, o almeno di risultare in linea con lo standard degli altri competitori, a prescindere dal loro livello di eccellenza o dalla loro mediocrità.

L’invidioso, in breve, appare incapace di adottare se stesso come metro di misura, di provare emozioni significative di fronte a un semplice miglioramento individuale, e persino di coltivare un percorso di vita autonomo ponendosi mete coerenti con i propri desideri più autentici e le proprie vocazioni più intime e personali. L’invidioso vive la sua vita in una continua e snervante tensione con l’altro. Da oltre due millenni la filosofia morale ci mette in guardia dall’essere invidiosi, un “abito” spirituale che la stessa teologia cristiana annovera tra i vizi capitali, una delle tendenze più nefaste e infelicitanti del cuore umano: la naturale propensione a provare tristezza di fronte al bene altrui, percepito come proprio male. La condizione dell’invidioso è infatti tale da indurre in lui la condizione di sofferenza che vorrebbe vedere nell’altro. Per questa ragione, nell’inferno Dantesco, l’invidioso si ritrova con gli occhi cuciti, effetto del malocchio che si ritorce contro di lui, mentre nell’Invidia raffigurata da Giotto all’interno della Cappella degli Scrovegni, il serpente della calunnia si rivolta contro di lui e le sue maldicenze.

Dal filosofo greco Aristotele a Baruch Spinoza, che invita l’umanità ad accettare con serenità il decreto divino, da Arthur Schopenauer a Friedrich Nietzche, che vede nell’invidia una condizione da schiavi indegna del superuomo e uno dei frutti del moralismo cristiano, la filosofia occidentale condanna unanimente questo sentimento invitando l’uomo retto ad affrancarsene. Fosse facile. Stando alla scienza, con l’invidia dobbiamo invece fare i conti perché studi come quello condotto dall’università Carlos III di Madrid ridimensionano di gran lunga le antiche credenze che fino ad oggi hanno offerto un fondamento rassicurante alle principali teorie economiche e sociali: la natura razionale dell’uomo e delle sue scelte, che sarebbero ispirate da una lucida e consapevole ricerca del proprio bene anziché dalla semplice reazione emotiva, di sgradevole compiacimento, di fronte al male altrui.

Le cose starebbero diversamente. La ragione sarebbe un tratto secondario e tutt’al più strumentale della psiche, incapace di definire gli scopi dell’agire e confinata negli spazi che il vissuto emozionale di volta in volta le concede. Sono infatti i sentimenti, e in particolare sentimenti negativi e anti-sociali come l’invidia, a offrirci la chiave migliore per comprendere le scelte degli individui in ambito sociale ed economico e a permetterci di leggere in controluce la storia e l’attualità. Quanto è attendibile lo studio pubblicato da “Science Advances”? Moltissimo, secondo i ricercatori spagnoli, che sottolineano come l’applicazione di un modello matematico pre-esistente garantisce un’imparzialità finora ignota agli studi comportamentali, debitori del punto di vista dell’osservatore e quindi delle sue credenze, del suo vissuto e dei suoi pregiudizi. La ricerca potrebbe avere effetti non secondari anche nel campo dell’intelligenza artificiale, dove la sfida dell’ingegneria è quella di rendere il robot il più possibile “umano”, rendendolo capace di provare addirittura sentimenti. Ma siamo sicuri che si tratti di una buona idea?

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