Due Papi estremamente diversi, due contesti storici completamente mutati, eppure l’idea di un’immagine comune che si fa spazio tra le righe del tempo: quella della fragilità che si mostra al mondo fino al momento dell’addio. La Pasqua 2025 ha confermato le preoccupazioni dei giorni precedenti: dopo un periodo difficile nel quale ha combattuto duramente contro dei terribili problemi di salute, Papa Francesco è morto e la situazione ha ricordato a molti quella di un’altra Pasqua, quella del 2005, quando Giovanni Paolo II, gravemente malato, benedisse i fedeli senza riuscire a pronunciare alcuna parola. Sembra esserci un legame tra queste due figure, andiamo a scoprirlo insieme.
- La morte di Papa Francesco nei giorni di Pasqua
- Il precedente di Giovanni Paolo II e della Pasqua del 2005
- La sofferenza come parte del ministero: Francesco come Wojtyla
- Una profezia condivisa? Cosa hanno in comune Francesco e Giovanni Paolo II
La morte di Papa Francesco nei giorni di Pasqua
Andiamo con ordine e partiamo da quanto accaduto Papa Francesco. Dopo la recente uscita dal lungo ricovero per una polmonite bilaterale al Policlinico Gemelli, il Pontefice ha affrontato con coraggio quella si pensava fosse una lunga convalescenza, sottoponendosi a terapie farmacologiche, fisioterapia motoria e respiratoria. Così, a pochi giorni dalle celebrazioni pasquali, il Vaticano aveva già diffuso il calendario della Settimana Santa, ma senza precisare se il Papa sarebbe stato presente. Un dettaglio che già indicava una situazione grave, ancor più perché ricadeva nell’anno del Giubileo.
La Santa Sede aveva dichiarato che le condizioni di salute di Bergoglio sarebbero state valutate nei giorni immediatamente precedenti alle celebrazioni. Dal canto suo, Papa Francesco aveva presenziato a sorpresa ad alcuni incontri e in molti avevano sperato che sarebbe riuscito ad essere comunque presente davanti ai fedeli a Pasqua e Pasquetta, fino al momento della morte, annunciato dal Cardinale Farrell nella mattinata di lunedì 21 aprile.
Il precedente di Giovanni Paolo II e della Pasqua del 2005
Con quanto accaduto a Papa Francesco, il paragone con Giovanni Paolo II viene quasi naturale. Non tutti lo ricordano ma, a marzo 2005, il Papa polacco (colpito da tempo dal morbo di Parkinson e da altri gravi problemi di salute) era visibilmente consumato dalla malattia. Eppure, nonostante tutto, il giorno di Pasqua si affacciò alla finestra del suo appartamento apostolico. Non riusciva a parlare, ma volle comunque benedire i fedeli in quella che è rimasta alla storia come la “benedizione muta”.
Sollevò la mano, tracciò il segno della croce e rimase in silenzio, per alcuni secondi che colpirono il mondo intero. L’immagine di un Papa che non aveva più la forza della voce ma non rinunciava alla sua missione rimase impressa nella memoria collettiva. Non rappresentava una semplice testimonianza di sofferenza: era la scelta consapevole di continuare a mostrarsi al popolo, anche nella fragilità estrema.
E si trattava anche di un gesto che si schierava contro la logica dominante nella società moderna, nella quale la malattia si tende a nascondere. Wojtyla, invece, la mise al centro della scena e di viverla come parte integrante della sua missione pastorale. Lo fece anche in altri momenti di quella Settimana Santa: ad esempio, durante la Via Crucis del Venerdì Santo, seguita dalla cappella privata, in preghiera con la fronte appoggiata al crocifisso.
La sofferenza come parte del ministero: Francesco come Wojtyla
La presenza pubblica di un Giovanni Paolo II, che decise di mostrarsi al popolo cattolico in quelle condizioni, fu interpretata da molti come un atto di martirio. Non nel senso spettacolare del termine, ma in quello più autentico: offrire la propria sofferenza come testimonianza di fede. La sua debolezza fisica non era qualcosa da superare o occultare, ma una via per mostrare il significato profondo del Vangelo.
Wojtyla sembrava voler riportare l’attenzione sull’essenziale: la Croce, il sacrificio, l’amore portato fino in fondo. Il silenzio del Papa, in quella Pasqua, era tutt’altro che vuoto. Anzi, rappresentava un messaggio potente, rivolto ai fedeli e al mondo: anche nella debolezza, la fede può essere ferma.
L’allora cardinale Ratzinger — futuro papa Benedetto XVI e all’epoca prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede — durante la Via Crucis pronunciò delle parole che risuonano come pregne del significato del gesto del suo predecessore sul soglio di Pietro: “Dobbiamo pensare a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chiesa”.
Papa Francesco si è trovato in una situazione che, per certi versi, ha richiamato quella del suo antico predecessore: un Pontefice la cui voce era affaticata, la cui salute era incerta e che testimoniava in pubblico la sua condizione di dolore e malattia.
In un mondo dove la comunicazione è continua, dove l’immagine conta più del contenuto, un Papa che tace o che non si mostra può dire molto. Può richiamare l’attenzione sul fatto che il cuore del Cristianesimo non sta nello spettacolo della liturgia, ma nella verità del messaggio che essa porta.
Una profezia condivisa? Cosa hanno in comune Francesco e Giovanni Paolo II
L’idea che Francesco e Wojtyla abbiano condiviso una profezia non ha nulla di esoterico o misterioso. È una profezia intesa nel senso biblico: la capacità di leggere il presente alla luce del Vangelo. Entrambi i Papi, in maniera diversa e con uno stile di pontificato completamente differente, hanno mostrato che la fragilità umana non è un ostacolo alla guida spirituale, ma anzi può esserne parte costitutiva.
Giovanni Paolo II lo ha fatto mostrandosi fino alla fine e altrettanto ha cercato di fare Papa Francesco, ricordando che la guida spirituale non è solo visibilità, ma coerenza, preghiera, offerta.