Negli ultimi anni ha preso piede anche in Italia l’abitudine di vendere in autonomia abiti e accessori usati grazie alle nuove piattaforme online e alle applicazioni dedicate. Super pubblicizzate attraverso i vari media, infatti, questi strumenti sono facili da utilizzare e permettono di gestire con semplicità l’intero processo di vendita. In generale, è sufficiente scattare una o più foto all’oggetto di cui vogliamo sbarazzarci, caricarne una breve ma completa descrizione sul proprio profilo, decidere il prezzo e pubblicare.
A quel punto non resta che attendere che vi sia un utente interessato ad acquistare e il gioco è fatto: si impacchetta, si applicano le etichette e si provvede alla spedizione. Si tratta, quindi, di una pratica di riciclo piuttosto veloce che, da una parte, permette al venditore di guadagnare qualche euro da oggetti di cui non si serve più e che possono, invece, interessare a qualcun altro. D’altro canto, poi, è un ottimo modo per liberare spazio destinato a nuovi acquisti.
Tuttavia, come ogni strumento che non si conosce a fondo, anche queste app potrebbero nascondere qualche lato sconosciuto che è bene chiarire per non avere brutte sorprese. C’è, infatti, una recentissima normativa UE – datata 1° gennaio 2023 – che prevede la dichiarazione dei guadagni oltre una certa soglia di vendita. Secondo la nuova regolamentazione comunitaria in materia fiscale, le piattaforme devono comunicare alle autorità i dati relativi ai guadagni degli utenti.
Quindi, gli stessi servizi di vendita dell’usato sono chiamati a fornire le informazioni degli utenti che, in un anno, hanno guadagnato somme superiori ai 2mila euro oppure hanno superato quota 30 vendite. Qualora, dunque, vi sia uno dei due requisiti, occorre compilare il formulario DAC7 inviato automaticamente dalla piattaforma. In caso di mancata comunicazione dei dati, i siti potrebbero optare per una riduzione delle funzioni di acquisto e vendita per il profilo che non ha fornito quanto richiesto.