Tradire è lecito, se per ripicca. A dichiararlo è la Cassazione, che difende i cornuti, ma anche chi “cornifica”, soprattutto se il tradimento arriva dopo aver subito per primi l’offesa. Con a sentenza n. 3318/2017, i giudici hanno stabilito come la separazione vada addebitata al marito infedele, anche se la moglie, dopo aver scoperto il tradimento, abbia deciso di intrattenere un rapporto con un altro uomo solo per ripicca. Il motivo? Secondo la Cassazione a originare l’infedeltà della donna sarebbe stato il comportamento dell’uomo, che per primo l’avrebbe tradita. La separazione quindi sarebbe da addebitare a chi ha causato una “rottura del rapporto coniugale”.
La Corte di Cassazione lo ha stabilito con una sentenza emessa dalla prima sezione civile. Nel disporre la separazione di una coppia infatti, i giudici hanno deciso di addebitare la separazione interamente al marito. La moglie infatti aveva scoperto il suo tradimento in seguito alle prove portate da due investigatori, fra foto e testi. Dopo aver avuto la certezza di essere stata tradita, la donna aveva deciso di vendicarsi iniziando una relazione con un altro uomo.
Nonostante il marito abbia chiesto l’addebito alla moglie, la richiesta è stata respinta. Per la legge infatti a portare alla rottura dei rapporti coniugali sarebbe stato il marito e non la compagna, che avrebbe avuto una storia con un altro uomo come conseguenza della scoperta di essere “cornuta”.
In base a questi presupposti la Corte territoriale ha deciso anche di negare al marito l’assegno di mantenimento e quello alimentare, considerando anche la sua attività imprenditoriale. “L’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale – hanno spiegato i giudici della Corte di Cassazione nella sentenza – è di regola sufficiente, da sola, a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, sempreché non si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, tale che risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto”.
Per la richiesta degli alimenti secondo l’art. 433 c.c., la Cassazione ha spiegato che questo è “legato alla prova dello stato di bisogno e dell’impossibilità da parte dell’alimentando di provvedere in tutto o in parte al proprio sostentamento mediante l’esplicazione di attività lavorativa”.
In collaborazione con Adnkronos