Sotto le acque cristalline dei fiordi orientali islandesi si cela un’emergenza che sta unendo scienziati, ambientalisti e cittadini in una battaglia urgente per la salvaguardia della natura. Si tratta del fenomeno dei cosiddetti salmoni “zombie”, un termine inquietante che non viene dal mondo della scienza, ma dalla necessità di rendere visibile e comprensibile una minaccia concreta e crescente.
La cittadina di Seyðisfjörður, un piccolo villaggio incastonato tra le montagne e l’oceano, è oggi il simbolo di questa resistenza. Qui, come in altre zone costiere dell’Islanda, si teme che i salmoni di allevamento, fuggiti dalle reti sottomarine, stiano modificando il patrimonio genetico dei salmoni selvatici, unici nel loro adattamento a milioni di anni di evoluzione nell’Atlantico del Nord.
- Cosa sono davvero i “salmoni zombie”?
- Le fughe che alterano l’ecosistema
- Tra interessi economici e tutela ambientale
- Un problema globale
- La scienza lancia l’allarme
Cosa sono davvero i “salmoni zombie”?
Il termine “zombie” descrive salmoni deformi, ciechi, con gravi lesioni alla pelle, privi di pinne o affetti da infezioni. Sono il risultato di ibridazioni forzate con i salmoni d’allevamento, ma anche dell’esposizione a parassiti, batteri e condizioni ambientali degradate all’interno degli impianti marini. Questi allevamenti intensivi, pur fornendo circa il 70% del salmone consumato a livello mondiale, stanno mostrando crepe sempre più evidenti in termini di sostenibilità.
L’utilizzo di pesticidi marini, in particolare contro i pidocchi di mare, rappresenta un ulteriore pericolo. Le sostanze chimiche rilasciate in mare aperto danneggiano anche specie non bersaglio come molluschi, crostacei e altri organismi marini essenziali per l’equilibrio dell’ecosistema.
Le fughe che alterano l’ecosistema
Il cuore del problema sono le fughe massicce dai recinti di allevamento. In Islanda, così come in Norvegia, migliaia di salmoni sono riusciti a uscire in mare aperto, incrociandosi con i salmoni selvatici e alterandone il codice genetico. Il rischio? La perdita di una specie unica, adattata a condizioni estreme, e la scomparsa della biodiversità marina locale.
Alcune comunità hanno già notato segnali preoccupanti: colorazioni anomale, odore alterato delle carni e torbidità dell’acqua nei pressi degli impianti. I pescatori parlano di una situazione visibile già a occhio nudo, che non ha più bisogno di conferme in laboratorio.
Tra interessi economici e tutela ambientale
Gli allevamenti di salmone rappresentano un business in forte espansione in Islanda. Le aziende promettono occupazione, crescita economica e sicurezza alimentare, ma gli impatti ambientali iniziano a pesare in modo sempre più evidente. Oggi si stima che solo il 25% dei salmoni dell’Atlantico del Nord sopravviva rispetto agli anni ’70, un dato che fa temere l’estinzione non più come un’ipotesi, ma come una prospettiva concreta.
Anche la cantante Björk, da sempre legata alla difesa dell’ambiente islandese, ha preso posizione contro questi allevamenti, sostenendo le iniziative di tutela dei fiumi e dei salmoni selvatici.
Un problema globale
La questione non riguarda solo l’Islanda. Dalla Scozia al Canada, passando per l’Australia, cresce la pressione per regolamentare gli allevamenti intensivi di salmone in mare aperto. In Norvegia, patria del settore, alcuni fiumi sono stati chiusi alla pesca sportiva a causa del crollo delle popolazioni di salmoni selvatici.
E anche l’Italia potrebbe trovarsi coinvolta: studi recenti valutano la possibilità di impianti di allevamento nel Mar Adriatico, sfruttando acque profonde e sistemi semichiusi. Una scelta che, senza una valutazione rigorosa dell’impatto ambientale, potrebbe replicare problemi già ben noti altrove.
La scienza lancia l’allarme
Gli esperti non negano l’importanza del salmone come fonte proteica, ricca di Omega 3 e molto richiesta a livello globale. Ma il messaggio è chiaro: serve una regolamentazione più rigida, servono controlli ambientali efficaci, serve agire adesso, prima che sia troppo tardi.
A raccontare tutto questo sarà anche il documentario Silent Water, diretto da Óskar Páll Sveinsson, ancora in produzione, che testimonia il silenzio inquietante dei fiumi islandesi ormai privi di salmoni. Un silenzio che potrebbe diventare assordante anche in altre parti del mondo.